AUTOBIOGRAFIA

ANCH’IO SONO STATO UN “CARNEFICE”

Il genetista R.D.Hotchkiss nel 1965 coniò per la prima volta la parola biotecnologie ed in suo lavoro intitolato “Presagi per una ingegneria genetica” scriveva : < Coloro che hanno la responsabilità di insegnare e scrivere di scienza compiranno il loro storico dovere aiutando il nostro pubblico a riconoscere e valutare queste possibili conseguenze, per evitarne gli abusi. Poiché certamente questi si vanno facendo >.

Ian Wilmut, lo scienziato che clonò la pecora Dolly  e che pubblicò “La seconda creazione: l’era del controllo biologico” (libro alquanto pretenzioso in cui l’autore considerava una potenzialità benefica il lavoro svolto), riconsiderò poi criticamente la propria esperienza per ammonire circa i pericoli inerenti a quelle tecnologie.

Dov’è finita quella onestà intellettuale?

Personalmente ho conosciuto scienziati e ricercatori che seguono pedissequamente la corrente, in maniera acritica, proclamando ad esempio l’assenza di rischio, senza entrare nel merito. Qualcuno per interesse, qualcuno per “ignoranza”, qualcuno per solidarietà di corporazione,  qualcuno per pigrizia…

Rispetto all’ogm  l’obiezione che spesso ho riscontrato è questa: in fondo con la manipolazione genetica non facciamo altro che “accellerare” quello che in natura avviene, anche se con tempi più lunghi, con le mutazioni, incroci, ricombinazioni, etc. Questa risposta che mi è capitato spesse volte di sentire è “strana”, anche perchè non è scientificamente vera.

Anch’io sono stato un “carnefice” anche se in gran parte “teorico”.

Da bambino passavo parte delle vacanze estive presso la famiglia di mio padre in Abruzzo. Era una famiglia mezzadrile, i cui tanti componenti vivevano insieme in una grande casa colonica e coltivavano un terreno, prevalentemente ad ortaggi.

Poi, con la fine dell’estate ed in seguito con l’inizio della scuola, tornavo a vivere in un condominio ad Ancona. Anche adesso i ricordi di quando ero bambino provengono tutti da quei periodi passati in Abruzzo.

Mi ricordo di mio nonno che con pazienza mi insegnava i nomi delle piante e mi portava nella stalla per farmi vedere gli animali e qualche volta mi faceva fare un giro sul carretto trainato dai buoi. E quando potevo ero sempre nel campo a fare le mie “scoperte”.

Poi, per diversi motivi, dai 10 anni in poi, passai le mie estati ad Ancona e così piano piano mi scordai dell’Abruzzo. Però ho la presunzione di pensare che un legame mi rimase, una “sensibilità” con le piante, gli animali, con la natura.

Una volta rimasi “scioccato”(avevo circa 11 anni) quando un compagno di gioco staccò la coda ad una lucertola “per vedere se ricresceva” o quando avevo saputo che c’erano dei ragazzi che avevano catturato un gatto e poi l’avevano gettato da un dirupo per vedere se sopravviveva. Ai miei tempi esistevano questi “giochi” innocentemente sadici e malvagi.

Poi passarono altri anni: la scuola media, il liceo scientifico…

Negli anni 80 mi iscrissi alla facoltà di Agraria di Bologna. Di agricoltura biologica o naturale ancora si parlava molto poco. C’era ancora la spinta della rivoluzione verde, della superiorità delle varietà ibride e della chimica.

L’università, tranne qualche eccezione, era “appiattita” su questo modello di agricoltura a forte imput tecnologico. Vivendo e “respirando” in questo contesto assimilai certi principi ed arrivai a pensare che senza i semi moderni, la chimica, i concimi, gli insetticidi, i diserbanti non si potesse arrivare a dei raccolti economicamente soddisfacenti. E che l’insetto utile fosse quello morto.

Pensavo: le varietà devono essere ibride e selezionate, perchè producono di più e sono migliori da tutti i punti di vista: morfologico, genetico, organolettico, etc. Con schematismi e semplificazioni (che oggi ritengo ridicole) come ad esempio la restituzione con la concimazione chimica in quantità identica rispetto all’asportazione da parte delle piante coltivate di elementi nutritivi, quantificati attraverso il peso delle loro ceneri. L’eliminazione ad ogni costo di tutte le erbe spontanee sulla coltura con trattamenti diserbanti per eliminare la più piccola competizione.

Pensavo che l’agronomo era bravo quando azzeccava il tipo di diserbante più adatto per quella coltura in quella determinata epoca…

Ancora non mi ero laureato e, siccome volevo fare pratica ed anche per motivazioni economiche, mi iscrissi come bracciante agricolo. La pratica era quella che mi mancava. Con abbastanza arroganza volevo fare ed imparare un po’di tutto.  Incominciai a fare i più svariati lavori agricoli mai fatti prima: trattorista, potatore, innestatore, zappatore, campagna del grano, campagna della bietola. Poi, grazie ad un fattore[1], conobbi un rappresentante di una multinazionale chimica. Volendo fare anche quella esperienza,  incominciai a girare insieme a lui per le campagne della provincia bolognese nei periodi che non ero occupato con gli altri lavori. Così ebbi modo di vedere le diverse realtà agricole: frutticole, cerealicole, ortive, etc.

Lo schema era più o meno sempre lo stesso: giro in azienda; il rappresentante, con me dietro e l’agricoltore proprietario al suo fianco, che girava tra i filari di alberi da frutto o altre coltivazioni e improvvisamente si bloccava, tirava fuori dalla tasca una lente e su una foglia tra mille scorgeva un afide o un ragnetto rosso (capitati lì chissà come) e “terroristicamente” faceva presente all’agricoltore che se non si interveniva questi si sarebbero diffusi enormemente e si sarebbe rischiato la perdita del raccolto.

Poi si andava a casa dell’agricoltore. Il rappresentante dapprima porgeva all’agricoltore un depliant dell’ultimo miracoloso prodotto diserbante  e poi tirava fuori dalla borsa il blocchettino delle ricette (come il medico) e faceva la sua brava ricetta chimica. Mentre il rappresentante scriveva l’agricoltore stava rispettosamente in silenzio.

Alla fine l’agricoltore ringraziava. L’agricoltore, solo fino a pochi anni prima ancora quasi contadino, “costretto” a cambiare con la speranza di diventare più “ricco”.

Se avesse saputo! Che sarebbe dovuto andare a lavorare in fabbrica, che non avrebbe potuto dare una tranquillità economica e di vita ai suoi figli come i suoi genitori avevano fatto con lui e che nelle peggiore degli ipotesi avrebbe dovuto vendere parte o tutta la proprietà.

E poi c’era il “rito” del pranzo. Io e il “mio” rappresentante ci vedevamo con altri rappresentanti di altre multinazionali (ognuno aveva orgogliosamente il suo pezzettino di territorio e i suoi agricoltori) in un ristorante. Ancora mi ricordo dei discorsi che si facevano a tavola sulla efficacia e tossicità dei prodotti, sui vari periodi di carenza non veritieri scritte sulle confezioni, sul vantarsi delle “fregature” date agli “ingenui” agricoltori, con competizioni stucchevoli su chi aveva venduto di più e sui premi conseguenti. Mi rimase impressa una frase che un giorno venne detta: <quando l’agricoltore distribuisce un diserbante è come se avesse in mano un mitra>.

Questa esperienza mi fu molto utile: incominciava (allora non ne ero consapevole) ad insinuarsi qualche dubbio nel cervello, un piccolo tarlo ancora quasi latente, che però iniziava a rosicchiare le mie certezze.

Nel 1980 mi laureai in scienze agricole e forestali. Negli anni successivi continuai a girare presso aziende agricole insieme ad una squadra di potatori ed innestatori. Finchè, a seguito di una proposta di lavoro incominciai a lavorare in una di queste aziende in modo continuativo come dipendente al seguito del fattore. Questo sarebbe andato in pensione da lì a 2 anni, lasciandomi il suo posto, dopo avermi insegnato le varie mansioni, anche burocratiche.

Ma le cose non andarono in questo modo, perchè dopo pochi mesi il fattore si ammalò di tumore al fegato e dopo poche settimana morì. Mi rimase impresso nella memoria quello che mi disse una volta che andai a trovarlo in ospedale. Si rammaricava di tutti i prodotti chimici che aveva dato senza nessuna protezione e quindi respirato ed era adesso consapevole che questo fosse stato la causa del suo tumore. Mi disse: <ormai è tardi per tornare indietro>.

I miei dubbi aumentarono, ma ancora la contraddizione evidentemente non era al suo punto di non ritorno tale da provocare il cambiamento. Cosa che sarebbe avvenuta gradualmente negli anni successivi anche grazie ad altri “incontri”.

Tutto quello che ci capita e le “contaminazioni” con le persone che incontriamo in questa vita terrestre concorre a cambiarci, a modificarci. In fondo anche questa può essere chiamata variabilità e fa parte dell’ordine dell’universo, è una sua legge, insieme all’altra legge, quella dell’equilibrio. Sembrerebbe una contraddizione ma non lo è. Come ad esempio il cuore, variabile nelle sue due fasi principali, che sono opposte, di sistole e diastole, di contrazione e dilatazione.

Ma affinchè possa essere possibile la vita queste due fasi opposte devono essere in equilibrio…

Ma mi sono fatto persuaso che è stato soprattutto grazie a quel legame di bambino, possibile grazie ai miei ascendenti, se piano piano ho iniziato a cambiare la direzione del mio pensiero e poi delle mie azioni.

[1] Il fattore è il responsabile, il direttore dell’azienda agricola. Di norma retribuito dal proprietario.

CONTINUA

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